Tutti quelli che odiano Manila
(Muriel Pavoni)
Il tempo non voleva passare, l’orologio sembrava inchiodato sulle cinque. Nanà, più che russare, ruggiva raspando coi talloni sotto le coperte. Manila aveva letto da qualche parte che in una notte di sonno si consumano quattrocento calorie. Di sicuro Nanà ne brucia almeno il doppio. Manila, schiacciata tra la parete gelida e i rotoli caldi di Nanà, guardava il riflesso della luna tra gli scuri, nella penombra della stanza. Il corpo della donna le offriva oltre un quintale di generosa protezione. Non si poteva sottrarre, si trattava solamente di trovare il lato comodo, allora diventava quasi piacevole adattarsi a quel cuscino di carne. L’importante era arrivare al mattino, perché lei aveva un lavoro. Sei e quarantacinque, i pensieri si erano divorati quasi tutta la notte. Pensieri sparsi nel tempo dilatato, di quelli che alla fine non riesci a trovare il filo. Finiva sempre così: era ora di alzarsi e tra una cosa e l’altra non aveva preso sonno. Scese dal letto scivolando sulle curve di Nanà. Manila sentì il gelo del pavimento sotto i piedi. Rabbrividì. Fu un tremore intenso, una scarica in tutti i muscoli. La notte intera le si scrollò di dosso. Attenta a non fare il minimo rumore, raggiunse la scala a piccoli passi, poggiando i piedi contratti sulle piastrelle gelate. Conosceva quella casa a memoria. Sapeva muoversi, solo un paio di orecchie allenate avrebbero potuto intercettarla. Procedeva con gli occhi spalancati a distinguere le ombre nell’oscurità. L’ansia cresceva avvicinandosi al fondo della scala. Ecco l’ultimo gradino. Sei passi fino alla porta del bagno: uno, due, tre…Un clangore la fece sussultare fino a inciampare, riuscì a malapena a mantenere l’equilibrio. Il cuore aveva raggiunto le tempie e pulsava sordo. D’un tratto le luci divennero più forti. Era Alda sulla soglia del bagno. Si alzò scaraventando a terra il piccolo scranno su cui sedeva aspettandola. Manila si accorse che era inciampata su un complicato groviglio di fili tesi al limitare dello scalone, collegati a una grossa pentola che doveva essere volata giù dal tavolino. Alda la trafisse coi suoi piccoli occhi perfidi: “Vado in bagno io. Ho un mal di pancia.” Si massaggiò il ventre con dei movimenti circolari. “Mi spiace per te. Mi sa che è una cosa lunga. D’altronde c’ero prima io.” Le lanciò un ghigno. Entrando scoppiò in una risata che continuava a echeggiare fin dentro il bagno. Dopo aver sbattuto la porta, girò la chiave. Sarebbe uscita molto più tardi. La ragazza si accasciò per qualche minuto sull’ultimo gradino, rassegnata a lavarsi nel tinello, come ogni mattina. Alda era sicuramente in cima alla lista di quelli che non la potevano soffrire, cominciare così la giornata le dava un senso di frustrazione profondo. Tornò al piano di sopra e si buttò, peso morto, sulla poltrona di Nanà. Affondò la faccia nel bracciolo fino a inebriarsi di quel bouquet di muffa e finta pelle. E mentre Alda cantava a squarciagola in bagno, l’odore non bastava a fermare tutti i suoi fantasmi. Le persone non fanno altro che odiarmi. Non ne capiva il motivo, c’era un lungo elenco di risposte. Ma lei ne cercava una sola, una che contenesse tutto il suo disagio. Chissà cosa c’è che non va. Lei mi ha odiata da subito. Da quella stretta di mano, troppo robusta. Mi ha quasi stritolato. Affondò i pugni nelle tasche del pigiama. Poi, cominciò a contare con le dita. Venivano fuori decine di persone sul cui disprezzo avrebbe potuto tranquillamente giurare. Decine di compagni di classe, amici, vicini di casa, conoscenti, gente del suo paese, il posto da cui era fuggita un giorno in treno. Il suo passato, un passato di risatine e prese in giro, un passato che resta, e se si è fortunati rende cattivi, altrimenti indifesi. L’elenco di tutti quelli che la odiavano era un modo come un altro per consolarsi. Uno strano modo di consolarsi: farsi ancora più male.
La paura si arrampicò lungo la spina dorsale fino a scuoterla in un brivido profondo. Paura di sbagliare. Paura di restare sola. Le venne un gran voglia di tornare sotto le coperte, nell’utero. Resterò a casa. Inventerò una scusa. Oggi non è giornata. Il telefonino fece vibrare le vetrinette della credenza. Era Martha. “Ehilà cara. Stai andando dalla Bagnaresi?” “Martha!” sospirò. “Avrei bisogno di parlarti.” “Ancora? Va a finire che mi prendo una laurea in psicologia a forza di parlare con te. Dai, muoviti che hai il primo appuntamento tra un’ora. ”Riattaccò senza darle il tempo di rispondere. Ciao, Martha… Sussurrò, rosicchiando le ultime pellicine del pollice. Nanà sedeva sul letto, scossa dalle urla nel bagno, aveva gli occhi semichiusi e una smorfia, come se dalla finestra filtrasse tutta la luce del sistema solare. “Che hai, piccola? Dormito bene?” “Come un sasso.” Mentì con un sorriso triste. “Lo sai com’è fatta Alda. Oggi ci parlo io.” “Magari.” Sospirò. Nanà non avrebbe mai parlato con Alda. Intanto la donna era già intenta a ripulire i piatti della sera prima per ricavare una porzione di spaghetti. “A te non vanno vero?” Manila abbozzò un sorriso. Nanà ripeteva la stessa frase tutte le mattine. Poi mangiava a quattro palmenti qualsiasi cosa trovasse in frigorifero. A fatica, la ragazza scelse dall’armadio: pantaloni di fustagno con le pince, un maglioncino azzurro con i cristalli di neve, una camicia col collo ricamato. Infilò un paio di calzettoni e le scarpe da ginnastica ancora allacciate. Sbirciò distrattamente la sua immagine allo specchio. “Sembri più giovane.” Bofonchiò Nanà “In che senso?” “Solo i bambini si vestono come te.” “E come si vestono gli adulti?” “Con i jeans, per esempio e gli stivaletti, sì gli adulti si mettono gli stivaletti. E i maglioncini aderenti. Come il mio.” ” Nanà, il tuo maglione non è aderente, è stretto.” “Guarda come mi segna le curve!” “Una meraviglia.” Aggiunse Manina in tono ironico. Nanà spalancò la bocca piena di cibo e rise, spruzzando resti qua e là. Manila si voltò sorridendo verso lo specchio. Nanà è stata in manicomio per oltre vent’anni e ora indossa gli abiti che le passa l’assistente sociale, ma li sceglie con mola cura. Manila trovò la sua cartellina sul tavolo sotto una montagna bucce di mela, la ripulì passandoci sopra il dorso della mano. Nanà le lanciò uno sguardo colpevole. Manila sospirò rassegnata. “Quando in tv c’è Schiava d’amore non capisco più niente.” Esclamò Nanà. “Ora vado, stamattina ho due appuntamenti.” “In bocca al lupo” Dal bagno continuava a uscire il canto di Alda. Scese in strada e s’incamminò di gran passo al primo appuntamento. Allora. Buongiorno signora, sono qua per svelarle un segreto prezioso. No, non voglio venderle nulla. Sbagliato. Nella vendita non si usa mai la negazione. Allora, se mi regala qualche minuto non se ne pentirà. Bella questa! Mentre ripeteva le formule apprese al corso credi in te stesso– guida pratica per venditori di successo – le boccette tintinnavano dentro la valigia. Nella testa, elenchi e refrain si agitavano come palline impazzite di un flipper. Arrivò, senza rendersi conto, alla fine della via. Tornò indietro e raggiunse il civico che aveva segnato in agenda aveva mezz’ora di ritardo
“Signora Bagnaresi, sono la sua consulente di bellezza.” “Non c’è fretta, facciamo due chiacchiere, prima.” Manila era come paralizzata. “Da anni sono costretto qui per un brutto incidente.” Spostò la coperta che aveva sulle ginocchia e scopri le rotelle della sedia su cui era seduto. Manila si sentì come sugli spilli. “Ho una grossa catena di alberghi, mi piacevano le donne e le auto da corsa. Una notte, pioveva, la macchina è scivolata sull’asfalto bagnato e lei è morta. Addio auto e addio donne.” Manila avrebbe voluto dire qualcosa ma suonava tutto così stupido e quel mi dispiace, che avrebbe voluto dire, le si fermò in testa. “Sono ridotto a chiedere aiuto per tutte le mie esigenze.” Lo fissò per qualche istante. Distolse lo sguardo e scorse un arazzo dietro di lui: un cavaliere con una lunga spada nell’atto di infilzare un drago. In sottofondo quell’uomo continuava a parlare in un susseguirsi di frasi ovattate, Manila ascoltava e non sentiva, afferrava vagamente il senso e fluttuava tra i movimenti fluidi del cavallo imbizzarrito e la spada alzata in un gesto elegante. Martha, non ti deluderò. Manila con gli occhi al quadro aveva captato le richieste del cliente. E tutto accadde come al cinema, come se stesse capitando fuori di lei. Manila iniziò a slacciarsi le scarpe. Si sfilò il maglione, la camicetta, i pantaloni. Indugiò un attimo, poi guardò il drago e pensò alla signora Venusta e a Elvira che avrebbe voluto comprare la crema che sposta la cellulite dal sedere al petto. Pensò a tutti i suoi clienti che desideravano soltanto un po’ di bellezza. Anche Oscar rivoleva la bellezza che aveva perduto e anche lei, con Martha, non cercava altro. Poi c’era Alda e tutti quelli che credevano che non ce l’avrebbe mai fatta. Tutti quelli che la odiavano. Restò immobile al centro della sala degli arazzi con i vestiti sparpagliati a terra e i calzini ancora nei piedi. Pensò a tutti quelli che l’avevano sempre maltrattata, guardate qua cosa faccio, coraggio, ci vuole coraggio e io il coraggio ce l’ho. Rifece mentalmente l’elenco, era più breve, faceva meno male. Si stava dimenticando qualcuno? Quell’uomo non era certo fra quelli, perché lei aveva fatto quello che voleva, l’aveva fatto felice e lui doveva volerle proprio bene, lui non era tra quelli che la odiano. La guardava, forse, sicuramente la guardava, sentiva i suoi occhi puntati su di lei, ma non aveva il coraggio di mollare il cavaliere in armatura, non poteva mollarlo proprio mentre era sul punto di infilzare il drago. “Puoi andare.” Manila sembrava ipnotizzata. “Ho detto puoi andare.” E le allungò una busta chiusa. Quanto tempo era passato? Il drago era ancora lì, intatto, mentre lei si infilava le scarpe senza slacciarle. Uscì dal palazzo con la testa che ronzava e la busta infilata in tasca. Avanzava con le gambe molli come dopo il salto in alto, l’asfalto era gomma piuma. Dentro un subbuglio, un frullare di pensieri. Strinse forte la busta e si ricordò di una volta, molti anni prima, nei pressi della fornace abbandonata, le sussurrava domani ci mettiamo assieme, facciamo una vasca abbracciati che ci vedono tutti, e intanto le frugava sotto la maglietta, fu veloce anche quella volta, ma senza il drago, al suo posto, un lampione illuminava l’insegna sbiadita della fornace, e il desiderio di passeggiare in piazza per mano, con lui, era immenso. E lui non si era fatto vedere né sentire il giorno dopo e quello dopo ancora. A lei era rimasto il ricordo dell’insegna sbiadita e la sensazione che il meglio doveva ancora venire, sicuramente il bello doveva venire, dopo tutto quel brutto. Immaginò il sorriso di Martha.