Quando l’estate finisce
(Roberto Costantini)
Sono passati gli anni, eppure ancora adesso non riesco a capire che cosa volesse intendere Lucilla con quel “avevo ragione io”. D’altronde, quando mai aveva avuto torto o almeno aveva avuto il dubbio di averlo? Questa era lei: prendere o lasciare. L’avevo presa. L’ascoltavo sentenziare su tutti e tutto così, senza che nessuno le chiedesse qualcosa, un parere. Osservavo il suo frenetico gesticolare mentre emetteva i suoi precisi verdetti. A volte non l’ascoltavo nemmeno, la lasciavo infervorare al punto giusto gustandomi le sue contrite espressioni. Attendevo che si alzasse in piedi a sancire il giudizio definitivo, agitando l’indice sinistro. Quando la voce le si trasformava, raggiungendo tonalità ieratiche, iniziavo ad accarezzarla. Partivo dalle caviglie sollevandole la sottana, lambivo i polpacci per passare alla parte posteriore delle cosce. Intanto avvicinavo il panchetto in cui ero seduto e accompagnavo l’insinuarsi delle mie mani nelle sue mutande di cotone, appoggiandole l’orecchio al grembo. Cercavo di cogliere la partenza delle sue parole direttamente all’origine, intuendone solo echi gutturali. Mano a mano che le mia dita la esploravano, la sua arringa si frammentava in quieti balbettii. L’ardore della sua dialettica si arenava tra istintive emozioni. Restavamo in quella posizione fino a quando non la sentivo vacillare in pudici sospiri. L’innocente sudorazione che percepivo stringendola a me, era il suo silenzioso permesso di alzarmi. Allora ci abbracciavamo, ci baciavamo fondendoci nel respiro di un unico corpo. Qualcuno, qualcosa, immancabilmente si intrometteva con metodo a dividerci. Lei si riassettava come meglio poteva provando ad apparire disinvolta, uscendo poi verso l’aia. Io scomparivo con i miei bollori su per i pioli che portavano al fienile, spiando la sua corsa dall’ombra di alcune balle di fieno. Non ne sapevo molto di queste faccende: il cuore mi pulsava come se mi dovesse abbandonare e un fuoco interiore mi tormentava senza che potessi prendere fiato. Mi lasciavo andare nella paglia guardando i nidi delle rondini fra le travi di castagno del tetto. Una sensazione umida mi segnalava qualcosa di indefinito sopra il cavallo dei pantaloni. Rimanevo steso a fantasticare sulla sua pelle, sulle sue labbra, convinto che quella promettente estate non dovesse finire mai. Spesso mi appisolavo con il suo odore ancora addosso, assaporandone il sapore nella bocca. Il verde degli occhi di Lucilla variava da quanto si esponeva alla luce del sole. Mi affascinava l’idea che nel suo sguardo potessi trovare l’alba e il tramonto ma vederla sorridere sulla riva del fiume, mi aveva davvero sconvolto. Non avevo pensato ad altro per giorni e mi ero inventato un mare di espedienti per poterla incontrare di nuovo. Era la figlia del contadino da cui mia nonna comprava il latte e continuando di quel passo tra uova, frutta e verdura, lo avrei arricchito in breve tempo. La scuola era finita da poco e fino a metà settembre sarei rimasto in montagna dai nonni, senza alcuna remora di restarci a vita. In quelle calde serate di giugno correvamo felici a catturare le lucciole, mettendole dentro a un barattolo e illuminando le nostre prime confidenze. Dopo la trebbiatura andavamo a caccia dei pochi luccioloni rimasti che valevano altrettanti baci per chi li avesse trovati. Lei continuava a gufare sull’avventura in cui eravamo coinvolti, convinta fosse destinata a concludersi con il mio rientro in città.
Inviperito, mi ribellavo al suo pessimismo prodigandomi in accalorate assicurazioni, in difesa del sentimento più forte che avessi mai provato. L’anno precedente Lucilla non era niente di più di una goffa scocciatrice, forse neanche tanto pulita, che incontravo nelle rare occasioni in cui accompagnavo la nonna a comprare qualcosa da loro. Non mi era ben chiaro cosa le potesse essere accaduto durante quei mesi ma stentavo a credere fosse la stessa persona. Appena potevo mi fiondavo intorno a casa sua per poterla vedere e riuscire a parlarle. Vestiva con abiti interi a tinta unita o gonne lunghe con camicette, le scarpe erano basse, chiuse da una linguetta sul collo del piede e quasi sempre aveva dei calzini corti bianchi, alla caviglia. A Bologna avrei strabuzzato gli occhi di fronte a un simile abbigliamento ma sul suo corpo, anche il peggiore degli stracci risorgeva miracolosamente. Il petto le esplodeva dentro qualsiasi capo indossasse e la carnagione, cotta dal sole, risaltava il rosso delle labbra e le sue iridi meravigliose. I capelli neri, come il becco di un corvo, le cadevano ondulati sulle spalle e quando voltava il viso verso di me, dopo avermi superato, quasi svenivo dal piacere. Purtroppo il sabato le nostre strade si dividevano: io dovevo attendere l’arrivo dei miei genitori mentre lei, con tutta la sua famiglia agghindata a festa, andava al mercato a Porretta. Svicolavo appena possibile dalla colazione con un’abbondante fetta di pane spalmata di nutella, inseguito dalle imprecazioni della nonna, nelle quali l’abbandono della tavola senza aver finito di mangiare, era quasi un peccato mortale. Correvo fino al margine del fosso che separava i due poderi e mi arrampicavo tra i rami di un melo per non perdermi la mia sfavillante Lucilla. Una curva prima del borgo, la corriera avvisava chiassosamente i passeggeri del proprio arrivo aspettando anche i più ritardatari e ripartiva. Resistevo aggrappato al tronco seguendo la sua forma azzurra scomparire tra i campi e le corti inanimate finché il suono del suo clacson non si estingueva, cambiando versante. Per distrarmi bighellonavo intorno al casolare occupandomi di mille insulse faccende, in attesa dei miei. Spesso il loro arrivo coincideva con il ritorno della mia amata, guastando un po’ l’allegria del momento di spacchettare qualche sorpresa. Nel caso, mi accontentavo del familiare saluto del pullman in lontananza, architettando come trovarla subito dopo pranzo. I giorni passavano intensi e rapidi accompagnando le nostre schermaglie affettive, da cui sembrava impossibile potersi distaccare. Sotto le magiche strisciate delle stelle di San Lorenzo, avevamo espresso innocenti desideri e ci eravamo scambiati giuramenti di eterno amore. Su di noi incombeva la fine delle mie vacanze e i reciprochi risentimenti per l’assenza della prova definitiva che avrebbe consacrato la nostra storia. Ci stuzzicavamo a vicenda scoprendo insicurezze tutt’altro che latenti: i suoi timori per la mia prossima partenza e la mia permalosità per la sua imperturbabile resistenza ai miei slanci amorosi. Alla Festa nell’Aia della prima domenica di settembre in cui il paese salutava i propri villeggianti, la situazione aveva preso una piega drammatica. Avevamo passato l’intero pomeriggio bisticciando su qualsiasi sciocchezza, forse intristiti dall’essere a un passo da una lunga separazione. Stavamo tornando anticipatamente verso casa tagliando attraverso i campi. Le montagne davanti a noi si nascondevano dietro una massa fumosa di tutti i grigi possibili. Un forte temporale sfogava la propria rabbia venendoci incontro minaccioso. Le nuvole si addensavano sulle cime più alte in violente pennellate sfumate di nero, tra i rari squarci bianchi del cielo. La vallata alla nostra destra era ormai violacea e zeppa di acqua che presto si sarebbe abbattuta sui nostri capricci. Il sole ci irraggiava da un basso spiraglio tra le colline della parte opposta. Ricordo di avere avuto la sensazione che un raggio di luce accecante filtrasse da sotto una porta, in una stanza buia. La terra dei fondi già arati, le distese incolte ancora verdi e gli appezzamenti ingialliti dell’ultimo taglio di fieno, risaltavano dall’insieme cupo quasi in fosforescenza. Il fascio luminoso la centrava di profilo dalla base del collo al viso, proiettando la sua immagine accesa sullo sfondo apocalittico della tempesta in arrivo. Una lacrima brillava rigandole il volto mentre le prime gocce pesanti ci picchiavano addosso. Non ho mai amato nessuno quanto Lucilla in quel magico istante. Il vento dominava gli scrosci di pioggia sferzandoci da ogni direzione fino a farci male. Fuggivamo mano nella mano contro un muro di acqua, cercando il rudere dell’essiccatoio a pochi passi, senza riuscire a vederlo. Poi l’ombra antica delle sue pietre, il vecchio uscio sgangherato…i nostri corpi fradici e infreddoliti finalmente al riparo. E su tutto l’immensa passione che orchestrava i nostri gesti, l’attrazione di pelle, la stessa curiosità dei sensi. Ci trasmettevamo brividi emotivi solo con lo sguardo, esaudendo in smaniose effusioni il sogno adolescenziale. Il suo respiro si aggrappava alla mia anima nel volo infinito delle nostre volontà, oltre qualsiasi illusione. La casupola che aveva accolto il nostro passaggio a una nuova fase della vita, ci liberava in un mondo differente. Aveva smesso di piovere, il vento si era placato e l’odore intenso della terra si mescolava ai nostri sudori. Nella strada a fine pendio le pozzanghere fumavano, evaporando insieme alle certezze di due giovani cuori. Arrivò il primo di ottobre e il vero dolore per la sua assenza. Scrissi le prime lettere colme di speranza, cariche di amore sincero. A mio padre fu proposto un incarico interessante se si fosse trasferito a Roma e dopo vari ripensamenti decise di accettare. La nonna dovette essere ricoverata per una grave malattia da cui non si riprese, di conseguenza il nonno andò a stare dalla zia. Qualche tempo dopo, la casa inutilizzata fu venduta con il benestare del nonno, su consiglio dei figli. Ci sentimmo a Natale senza l’entusiasmo necessario, ambedue imbarazzati dalle troppe difficoltà intervenute ad allontanarci. Poche amare parole di auguri, inconsistenti accordi per un incontro futuro. Le voci estranee negli avari saluti di circostanza. Non volle dirlo, mi risparmiò quest’ultima sofferenza. La razionalità delle sue inquietudini aveva previsto il compimento del nostro ciclo. Sì, ora comprendo… aveva ragione lei, come sempre.