Le bellezze di Palazzo Pepoli Campogrande
nel cuore di Bologna
Aggirandosi nei pressi delle Due Torri e guardandosi attorno col naso all’insù, ci si imbatte nella bellezza dei palazzi storici che costellano i vicoletti del centro bolognese.
Non vi è un angolo che non meriti attenzione percorrendo la lunghissima via Castiglione che oltrepassa persino, le antiche mura di cinta cittadine -delle quali è rimasto solo il cassero di Porta Castiglione- e prosegue oltre l’imbocco pedecollinare.
Ma fermandosi qualche metro più avanti dell’alta Asinelli e della monca Garisenda, si fronteggiano due grandi, eleganti palazzi, l’uno medievale e l’altro seicentesco. Nell’adocchiare il primo, non puoi fare ameno di notare il secondo: il più antico, con i suoi mattoni squadrati e lineari, intervallati da una lunga fila di pesanti anelli di ferro a cui, un tempo, si legavano i cavalli, ricorda un massiccio castello/fortezza. Il più recente, ricco di elementi stilistici e decorativi sulle facciate, mostra tutta la sua potenza ed autorevolezza.
Entrambi gli edifici appartennero alla blasonata famiglia di cambiatori e prestatori di denaro, De’ Pepoli che con il suo stemma a scacchiera, per molto tempo governò la città di Bologna, a partire almeno dai secoli XIII° e XIV°, tra alti e bassi, in lotta con i ghibellini sin dal secolo precedente, nelle aspre contese tra i Lambertazzi e i Geremei (guelfi) per il dominio territoriale.
I Pepoli, difensori della potente famiglia Caccianemici, battagliavano contro i propri avversari di sempre, i Tettalasini, perché un Pepoli (Guido) aveva ucciso in una rissa uno di loro, tal Giovanni; la faida durò per ben quarant’anni, terminando soltanto quando Romeo Pepoli sposò una Tettalasini (Giovanna) e fu proprio in quell’occasione che acquisì l’area sulla quale poi, il figlio Taddeo, edificò il primo palazzo, comprendendo vari blocchi che erano stati costruiti in diverse epoche.
L’ eccessivo potere di Romeo spinse altre famiglie importanti a cacciarlo ma poi, nel 1337, suo figlio Taddeo riuscì a rientrare, con titoli ancora più imponenti, addirittura come vicario pontificio. Infatti la sua ascesa coincise con la caduta del cardinale Bertrando del Poggetto nel 1334. Taddeo (guelfo nero a supporto dell’impero, contro il papato)) fece un accordo/compromesso con papa Benedetto XII il quale, da Avignone, malediceva i ribelli antipapali (guelfi neri che combattevano contro i guelfi bianchi, difensori del pontefice).
Così, tra compromessi e manovre politiche, il potere di Taddeo tenne botta e pare persino, ch’egli fosse apprezzato dalla cittadinanza; ma dopo di lui, i suoi discendenti non furono alla sua altezza e cedettero il potere ai Visconti, in cambio di denaro. Inoltre, non fu ceduta soltanto la città ma pure altri possedimenti, come i caselli di Crevalcore, di San Giovanni in Persiceto e di Nonantola.
I Pepoli comunque riuscirono a mantenersi in auge in qualche modo, perché con l’avvento dei Bentivoglio essi li appoggiarono, ricevendone benefici di vario genere.
La famiglia si ramificò in tre discendenze che tra l’altro, continuarono a vivere vicine tra loro, tanto che nel XVII°, costruirono pure il secondo palazzo, proprio di fronte al precedente; entrambi ancora oggi, troneggiano con la propria imponenza, su quel tratto della via Castiglione su cui poggiano le loro estese fondamenta.
L’edificio seicentesco, ora porta il nome di Palazzo Pepoli Campogrande ed è la sede del distaccamento bolognese, del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico oltre che succursale della Pinacoteca Comunale che, ivi, conserva ed espone al pubblico, un’importante serie di dipinti provenienti dalla storica Collezione Zambeccari.
Il palazzo ‘nuovo’ fu realizzato per volere del senatore Odoardo Pepoli, su disegno di Giovanni Battista Albertoni che realizzò la facciata principale ma il nome del progettista dell’edificio, è rimasto tuttora ignoto (probabilmente Albertoni medesimo). La facciata che dà su via Clavature, invece, fu completata più tardi , nel 1709, da Antonio Torri.
Naturalmente il palazzo fu pensato come residenza signorile in rappresentanza del prestigio sociale dei Pepoli che, da commercianti di stoffe, cambiavalute e banchieri, erano addivenute al più alto livello di famiglia senatoria; non caso, passeggiando per le sale decorate da splendidi stucchi e arricchite d’affreschi con scene mitologiche e trionfi, si respira appieno, l’atmosfera delle grandi feste e fastosi ritrovi cerimoniali che si svolgevano in quei prestigiosi locali, tra il XVII° e il XVIII° secolo.
L’ampio androne d’accesso e l’elegante scalone d’onore (entrambi opere di Giangiacomo Monti) accolgono i visitatori, ammirati, che non possono fare a meno di alzare lo sguardo al soffitto finemente affrescato con due stucchi ovali, dal Canuti che, nel 1665, rappresentò le Storie di Taddeo Pepoli e il conseguente episodio dell’accordo con papa Benedetto XII°.
Una volta entrati nel salone di ricevimento principale, impreziosito da un pavimento a scacchi (con evidente richiamo al blasone dei Pepoli) ci si trova davanti ad un altro spettacolo, sull’ ampia volta: l’affresco del Canuti che raffigura l’apoteosi di Ercole sul monte Olimpo, realizzato nel 1670 circa, con l’ausilio del Mengazzino (al secolo Domenico Santi) per le parti dipinte delle architetture raffigurate accanto agli stemmi dei vari discendenti della famiglia. Lungo le sale adiacenti, anch’esse decorate con affreschi di grande qualità artistica, si possono ammirare vari, splendidi dipinti facenti parte della collezione Zambeccari, allestiti alle pareti per arricchire ancor più, l’ambiente che assume un’ atmosfera barocca, con le opere di grandi maestri fiamminghi e italiani tra cui Tiziano, Donato Creti, il Guercino, Palma il Giovane, i Sirani ed altri importantissimi artisti emiliani.
La sala che affianca il salone principale, porta il nome di Sala Fèlsina ed oltre alle splendide opere alle pareti, ripropone fastosi affreschi sul soffitto, stavolta con i Trionfi di Fèlsina (l’antico nome della città di Bologna) realizzati da Giuseppe ed Antonio Rolli, mentre la successiva Sala delle Stagioni è impreziosita da quelli del Crespi, raffiguranti la personificazione delle Quattro Stagioni che circondano il Trionfo di Ercole.
Infine, sulla volta dell’ultimo ambiente nel piano nobile, la Sala di Alessandro Magno affrescata, nel 1710, da Donato Creti per volere di Alessandro Pepoli, è raffigurato il giovane re macedone che sedutosi sul gradino di un elegante scalone in ripida salita verso l’alto, recide il nodo gordiano: un chiaro richiamo alla forza decisionale del rampollo dei Pepoli.
Nel XVIII° secolo infatti, la famiglia appoggiava Napoleone e le sue attività anticlericali: del resto era risaputo che i Pepoli erano sempre stati guelfi neri, dalla parte degli imperatori, sin dai tempi più remoti. Nulla di contraddittorio, quindi, tanto che un Pepoli di nome Guido Taddeo, si sposò con la nipote di Bonaparte, Letizia Murat.
L’evoluzione della famiglia culminò con gli ideali risorgimentali del loro discendente, Gioacchino Napoleone Pepoli.
Successivamente il palazzo dopo vari avvenimenti entrò in possesso della famiglia Campogrande che, nel XX° secolo, concesse in donazione al Comune di Bologna, il piano nobile dove, tuttora, una parte della Collezione Zambeccari rimane visibile al pubblico.
A proposito della quadreria e dei suoi preziosi esemplari, non si può trascurare di evidenziare il dipinto di una delle rare artiste bolognesi, che ebbe fama rinomata in città e non solo, durante l’ epoca barocca: è una splendida Santa Maria Maddalena di Elisabetta Sirani che l’artista realizzò nel 1660 e oggi, è esposta nella Sala delle Stagioni.
La sua posa è distesa sulla roccia di un antro nascosto, lontano dal mondo, separato dalle acque, raggiunto con una piccola imbarcazione per alienarsi, a pregare la Croce. A farle compagnia, due angioletti sorridenti, sereni perché la peccatrice si è pentita e si è lacerata le vesti, si è spogliata di ogni ben terreno. Ella espone le sue nudità e tutta la sua bellezza che resta sì, seducente, con il suo corpo sinuoso e i lunghi capelli fluenti, ma è finalmente purificata, libera da tutto ciò che è superfluo, impuro, inutile.
La figura di Maddalena è rappresentata con una eleganza che affascina, ancora oggi, lo spettatore che la ammira. Tale maestria d’esecuzione stilistica caratterizzò l’arte della Sirani la quale tra l’altro ebbe il merito – durante la sua brevissima vita- di condurre con grande successo il suo atelier, sulla via Urbana al numero 7, frequentato da varie allieve. Un brillante esempio di innovazione in un’epoca che escludeva a priori o teneva in scarsa considerazione, la capacità artistica delle donne.
Anna Rita Delucca