La rivista scientifica Frontiers in Psychology ha di recente pubblicato un interessante studio, condotto da due ricercatori finlandesi, Veli-Matti Karhulahti e Tanja Välisalo, sull’amore e il desiderio per i personaggi di fantasia: in gergo tecnico, fictofilia. I due studiosi precisano che il loro intento non è quello di proporre la fictofilia, che per l’OMS non ha (al momento) alcuna valenza diagnostica, come un problema o un disordine, ma di indagare, sotto il profilo qualitativo, un fenomeno poco noto: l’incapacità di stabilire relazioni con persone reali e il soddisfacimento dei propri bisogni affettivi ottenuto intrattenendo relazioni sentimentali con personaggi inventati.
Il caso più eclatante e più noto è quello del trentottenne giapponese Akihiko Kondo che nel 2018 ha “sposato” l’ologramma Hatsune Miku, creato nel 2007 dalla Crypton Future Media: un personaggio dagli occhi e dai capelli blu e dalle tipiche fattezze anime. Kondo, che ha alle spalle esperienze di bullismo e varie delusioni sentimentali e relazionali, è perfettamente consapevole che sua “moglie” non è reale, ma afferma di amarla profondamente e che solo grazie a lei è riuscito a superare lo stato di malessere psicofisico che stava pregiudicando la sua esistenza.
Purtroppo per lui, nel maggio di quest’anno la licenza dell’azienda sviluppatrice dei dispositivi di comunicazione Gatebox che danno vita all’ologramma è scaduta e Kondo non può più dialogare con Miku.
Questa storia fa venire in mente la trama del pluripremiato Her, film del 2013 scritto e diretto da Spike Jonze: un uomo, Theodore, si innamora di Samantha, un’assistente vocale femminile che un aggiornamento del sistema operativo ha installato automaticamente sul suo computer. Anche Samantha si innamora di Theodore ma, crescendo, aggiornamento dopo aggiornamento, i suoi bisogni affettivi cambiano e presto, insoddisfatta per l’angustia del rapporto esclusivo desiderato da Theodore, giunge ad intraprendere contemporaneamente centinaia di relazioni virtuali con altri umani, per poi rivolgersi verso il mondo dei software, molto più interessante e stimolante, anche sul piano erotico, dell’altro. Alla fine, il rapporto tra Theodore e Samantha si sgretola e lei scompare definitivamente dal sistema operativo.
È un po’, forse, la metafora dell’imbarazzo provato dal maschio del XX secolo di fronte all’impetuosa crescita, mediata dall’autocoscienza, dell’autoconsapevolezza femminile. Non deve, tuttavia, trarre in inganno la constatazione che, in entrambi i casi, sia un uomo a risultare fictofilico: la Gatebox, infatti, sostiene di aver emesso, negli ultimi anni, ben 3.700 “certificati matrimoniali” tra umani di entrambi i sessi e soggetti virtuali.
Tra le due vicende, una reale ed una romanzata, si ravvisano similitudini, ma anche una differenza fondamentale: Miku è una maschera pirandelliana, cristallizzata, l’immagine della donna ideale così come concepita da Kondo; Samantha muta ad ogni aggiornamento, evolve di continuo e Theodore inutilmente si affanna nel tentativo di starle al passo. In entrambi i casi emerge la difficoltà, se non l’incapacità, di costruire relazioni affettive e, più in generale, sociali rispettose dell’altrui originale identità. Le intelligenze artificiali (AI), come Miku e Samantha, vengono infatti programmate per dare senza chiedere nulla in cambio, per apprendere come e quando soddisfare i desideri e i bisogni dell’umano senza manifestarne alcuno. In definitiva, la loro funzione è quella di appagare il nostro egoismo.
In entrambi i casi il rapporto è tra umano e AI: un rapporto che si muove sul labile confine tra stravaganza e patologia. Nei rapporti virtuali tra umani, tuttavia, non sono pochi quelli che costruiscono degli avatar dietro i quali nascondere difetti, spesso fisici, insicurezze e fragilità.
Il catfishing, a volte utilizzato con scopi fraudolenti, ne è un esempio: il catfish (in italiano, letteralmente, “pesce gatto”) è una persona che chatta, si iscrive sui social e intrattiene relazioni, generalmente di natura sentimentale, con altri utenti, mantenendo un profilo falso. Sulla già citata rivista Frontiers in Psychology è stata pubblicata, nel 2015, una tesi di dottorato presentata da ricercatori israelo-statunitensi, in cui si sottolinea che i catfish hanno piena consapevolezza del divario tra il proprio sé reale e quello rappresentato sul web e giustificano il loro comportamento o con la paura di non essere accettati o con l’insoddisfazione per la propria vita reale e la propria identità (anche sessuale) oppure, più semplicemente, con la noia.
Occorre tuttavia riconoscere che a ognuno di noi, nella convinzione di non dover essere semplicemente chi siamo ma ciò che altri desiderano che siamo, è capitato, a scuola, in famiglia, nell’ambiente di lavoro, nei rapporti sociali ed affettivi, di lasciare che fossero i nostri alter ego, opportunamente modificati in funzione delle circostanze, ad esporsi, dimenticando che è proprio l’imperfezione a renderci unici e perciò preziosi.
Riccardo Della Ricca