I colori estratti dalle pietre naturali nell’arte antica
Nell’antichità i colori per l’arte ma anche per la tintura dei tessuti si realizzavano in buona parte estraendoli dalle piante, e dalle pietre naturali.
Gli splendidi blu di Giotto erano composti con la polvere di lapislazzuli, per esempio.
Gli artisti se li creavano da soli, nelle proprie botteghe, assieme ai loro collaboratori.
I colori, nell’arte, si suddividono in tre principali categorie:
-Colori primari, costituiti da rosso, blu e giallo
-Colori secondari che si realizzano dalla mescolanza dei tre colori primari,
-Colori cosiddetti non/colori, costituiti dal bianco e dal nero.
Da dove traggono origine o meglio, come si ottengono, materialmente, i colori primari?
Nell’epoca moderna, grazie all’industrializzazione e alla tecnologia, esistono procedimenti sintetici e chimici che, da vari materiali, ottengono tinte e colorazioni di vastissime gamme: ma, come detto poc’anzi, nell’antichità si procedeva alla preparazione dei colori, per mezzo di sostanze naturali, provenienti dal mondo minerale, vegetale e animale.
Gli Egizi, che furono maestri nella pittura murale ad affresco, usavano colori come bianco, nero, rosso, azzurro, verde e giallo con grande vivacità, persino nelle tombe che raffiguravano la vita terrena dei defunti.
Assiri e Babilonesi costruivano grandiosi templi e palazzi con mattoni d’argilla ricoperti di piastrelle smaltate, vivamente colorate.
Gli antichi Greci usavano prevalentemente il nero, il rosso e il bruno per decorare, ma all’epoca ellenistica, risale anche il mosaico che si realizzava accostando piccole tessere di pietra o vetro decorate: un’arte praticata ancora oggi, ma nel mondo antico serviva per abbellire anche le pavimentazioni di ville romane e bizantine, di maggior pregio.
Le tinture a base di pietre preziose erano, dunque, già conosciute dagli Assiri e pure l’antica India, nell’Ayurveda, descrive i metodi per la preparazione di medicamenti con le gemme (elisir, paste, polveri e ossidi, dal processo di fabbricazione piuttosto complesso).
Dioscuride, noto medico romano del I sec. d.C., documenta in modo approfondito, il potere terapeutico dei cristalli polverizzati. Cita anche la sinopia, una tinta color fegato, estratta da una pietra densa e pesante, rinvenuta in certe caverne della Cappadocia e che, secondo Plinio, nella pittura pompeiana, era uno dei soli quattro colori usati per i più bei fondi rossi
Si parla ancora di pietre polverizzate come rimedi curativi, attraverso una ricerca approfondita, nel Lapidarius di Marbodo, vescovo di Rennes (1035-1123), mentre santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), la quale fu anche medico, erborista e infine, pittrice giunse a usi o rimedi similari, basandosi su intuizioni e visioni personali: “… Vidi una fulgidissima luce e in essa una forma d’uomo color di zaffiro…” che trascrisse e tramandò nelle sue pagine mistiche.
Le società medievali visualizzavano la propria esistenza in un mondo luminoso, probabilmente perché le loro notti erano scure, rischiarate soltanto da deboli lumi, le strade erano buie, come del resto, gli ambienti interni in cui abitavano, sia che fossero umili stamberghe, sia che si trattasse di grandi castelli o ricche dimore; così fu anche per i secoli successivi, fino all’avvento dell’elettricità.
Eppure i dipinti e le miniature medievali sono rallegrati da grandi toni di luce e colore in cui rosso, oro, bianco, nero, argento, azzurro, verde dominano in accostamenti vivaci e luminosi.
Sono i colori elementari, distribuiti e avvicinati, senza sfumarli, in campiture definite dove la luce pare essere irradiata dagli oggetti medesimi.
Questi colori, che per comodità vogliamo definire basici, venivano
prodotti in gran parte dalla materia naturale, attraverso la macinazione o battitura per crearne delle polverine.
Il metodo di polverizzazione delle pietre si usava anche per ottenere tinture da conferire alle stoffe, non solo per i dipinti.
L’Italia del Trecento, vide sorgere un grande affreschista, Giotto che già in età gio- vanile, eseguì mirabili cicli nella chiesa Superiore di San Francesco ad Assisi e realizzò, in maturità, gli splendidi esemplari nella Cappella degli Scrovegni, a Padova; tutte opere realizzate con intenso studio dello spazio, con regole intuitive di prospettiva, con senso del rilievo e del movimento scenico ma soprattutto, con sublime uso dei colori, impasti sapienti di toni chiari, in contrasto con toni scuri, che mettono in risalto la straordinaria maestria nel rappresentare le sue maestose, impassibili, figure, con le pieghe delle vesti che si inquadrano, perfettamente, nell’architettura d’insieme.
Le tinte primarie quindi, per moltissimi secoli, si ricavarono non solo dal mondo animale e vegetale (le cui caratteristiche, in questa sede, non è dato illustrare) ma pure pestando alcuni tipi di minerali nei mortai: sin da epoche remotissime, il blu si otteneva dalla polvere di lapislazzuli o di azzurrite, il giallo, in Egitto, si estraeva dall’orpimento (solfuro di arsenico) che gli antichi ritenevano contenesse oro e non lo usavano solo come pigmento ma, persino, come sostanza medicamentosa, nonché arso, all’aria, per ricavarne anidride arseniosa (altamente tossica).
Gli alchimisti, tentando di ottenere l’argento tramite la miscela di metalli, fondevano l’orpimento con il rame e il risultato era una lega dal colore grigio che somigliava vagamente al metallo nobile.
Il rosso si poteva realizzare con vari elementi minerali come ad esempio il cinabro o ematite (ossido ferrico) con cui si realizzava una tonalità detta, appunto, rosso cinabro.
La porpora invece – utilizzata soprattutto per tingere vesti di qualità molto pregiata- poiché il procedimento di estrazione del colore era parecchio difficoltoso e costoso, non si otteneva da un minerale ma da un mollusco, il murice.
Anche il pigmento verde, nell’antichità, proveniva non solo, dal mondo vegetale ma pure dalla polverizzazione di alcuni minerali, come la malachite. Questa tintura venne poi conosciuta con vari nomi, come verde/azzurro di Spagna, di Magna Grecia o di Alemagna.
Si sa che dalla lavorazione delle pietre emergono toni e riflessi straordinari, contenuti all’interno del minerale ma che a occhio nudo, spesso, appaiono grezzi.
I colori tratti dai minerali, possono essere naturali o artificiali.
I primi si trovano in natura e sono estratti da terre, ocre e bitumi, come ad esempio la terra di Siena.
I colori minerali artificiali, invece, provengono sì, dalla natura ma sotto forma di sali, ossidi e solfuri derivanti da diversi metalli, fra i quali ferro, piombo, rame o mercurio e si ricavano con procedimenti chimici come ossidazioni, miscelazioni e altri ancora, che li trasformano, poi, nei vari pigmenti.
I più comuni sono: la biacca, il litargirio (un giallo ottenuto riscaldando la biacca a 400 gradi), il minio (un rosso molto utilizzato nella pittura su pergamena, da cui la definizione di miniatura), il blu egiziano, il verderame.
Le tinte vegetali o animali, invece, si usavano anche per comporre lacche, come leganti.
Dopo il Medioevo, con l’avvento delle nuove ideologie progressiste promosse dall’Umanesimo e dal Rinascimento, tutte quelle pratiche medicamentose con l’uso di pietre e minerali, furono abbandonate ma l’arte continuava invece, a mescolare impasti con polveri (anche di pietre) per realizzare i colori da usare in pittura e decorazione.
Nel mondo contemporaneo i colori si acquistano già pronti per l’uso: ne consegue che da un lato, si è persa la tradizione di macinare le polveri e impastarle al legante, dall’altro, le gamme di colori si sono notevolmente moltiplicate essendo oggi, sintetiche e ottenute in laboratorio con procedure scientifiche…
Continua a leggere in: “Il sentiero dei Cristalli. Storia Mito Arte Cristalloterapia” di Anna Rita Delucca, Claudia Malaguti, Edizioni Youcanprint, 2022