Don Milani
100 anni del prete educatore
Che la torta non bastasse per tutti fu molto chiaro a Don Milani già agli inizi degli anni sessanta scorsi. Eppure, in quel periodo, nella scuola italiana non c’erano ancora extracomunitari, né alunni bes (con bisogni educativi speciali), né alunni dsa (con disturbi specifici di apprendimento). Non si parlava di fragilità, né di bullismo. Non se ne parlava semplicemente perché queste tipologie di alunni non erano nella scuola, luogo privilegiato di accesso solo ai più fortunati. Se ai disabili, ai ritardati mentali, erano riservate le classi differenziali, il destino dei bambini malmessi e diseredati era ancora più oscuro. Molto spesso finivano abbandonati in luoghi di costrizione, alcuni perfino nei manicomi, privati della minima speranza di riabilitazione.
La scuola dei più deboli di Don Milani faceva i conti con la povertà materiale e sociale delle famiglie del dopoguerra, aggravata dall’ignoranza culturale di base diffusa. L’ analfabetismo sembrava una piaga inguaribile, nonostante la ricostruzione post-bellica avesse messo in gioco tante energie e risorse positive, per colmare le differenze fra i ceti sociali, fra nord e sud, fra zone e zone del Paese.
La pedagogia di Don Milani diventò bandiera profetica per la nostra scuola e per la società italiana.
Il suo “i care”, prendersi cura, evidenzia la scuola come luogo accogliente di ogni bambino, il cui destino si intreccia per forza al successo dell’azione didattica: prendersi cura di tutti coloro che sono dietro ai banchi usando il sapere come strategia per formare menti critiche e consapevoli. Fu questa la certezza educativa che poi portò all’isolamento di Don Milani nella società del suo tempo. La scuola può deviare il destino di tanti ragazzi che l’origine sociale inchioda a condizioni di vita incerte e rischiose. Su questi ragazzi la scuola si deve chinare e puntare alto, insisteva Don Milani. Vero ancora oggi.
Un’altra sua certezza fu quella di voler dare a tutti le stesse opportunità. Ma dare a tutti le stesse opportunità non garantisce il superamento delle differenze di partenza. Di qua la simbolica immagine della torta, le cui fette non devono essere uguali per tutti, ma proporzionate all’appetito/ privazioni di partenza. La scuola è la prima grande opportunità che incontrano i bambini nel processo di crescita: la conoscenza, la parola, la competenza linguistica, sono strumenti di rivendicazione sociale, necessari per rimettere in moto quell’ascensore sociale oggi bloccato.
Da Don Milani in poi la nostra scuola, specialmente quella di base, è stata investita da un susseguirsi frenetico, soprattutto negli anni 80 e 90, di innovazioni sul campo e da numerose riforme. Fra le tante, alcune vuote, altre inutili, nate vecchie, la straordinaria legge 517/77, che ha anticipato di cinquant’anni lo sguardo inclusivo della scuola attuale, ormai svecchiata dalla rivoluzione pedagogica di Don Milani. I laboratori, le classi aperte, il superamento della lezione frontale, l’insegnamento cooperativo, la didattica fuori dall’aula negli ambienti di vita quotidiana, non sono scoperte di oggi, né monopolio dell’attuale pedagogia finlandese. Don Milani le praticava già con la pluriclasse di Barbiana.
Erano rivendicazioni chiare al prete-pedagogista, che reclamava una scuola attiva, reale e che pagò in prima persona il dissenso dichiarato nei suoi scritti e nel suo operato quotidiano. Pagò per essersi opposto a una società che non ammetteva la disobbedienza civile, una società in cui la scuola replicava se stessa, lasciando indietro i più diseredati e contro la quale si schierò apertamente nella famosa “Lettera a una professoressa” (1965).
Le sue idee innovative, che reclamavano una scuola inclusiva, a misura di ragazzo, garanzia del diritto a saper parlare, come capacità critica di scelte e di protagonismo attivo nella vita sociale,
che reclamavano anche il diritto alla disobbedienza civile, lo costrinsero a un isolamento totale, anche a quello ecclesiale. Incontrò solo i fanciulli contadini di Barbiana, analfabeti, destinati a crescere senza parole e senza sogni per un futuro diverso da quello dei loro padri, privati dell’aspirazione a una vita più giusta e più umana.
Ancora oggi la scuola è chiamata a lottare per non arrendersi ai tanti problemi che investono i nostri giovani. Per molti di loro resta l’unica frontiera che si frappone alle incertezze del presente, l’unica possibilità di futuro per tanti, tantissimi bambini in difficoltà di ogni genere. Ancora oggi ci sono bambini fortunati e tanti, tantissimi bambini sfortunati, perdenti in partenza.
Insegnare è diventato un lavoro a rischio, faticoso e con poche prospettive.
La denatalità che ci sta investendo potrebbe essere l’occasione per snellire le classi e dare la possibilità a tanti professionisti appassionati, di chinarsi sui più giovani, coniugando conoscenza con empatia. Approfittiamo dell’inverno demografico per abolire le “classi pollaio”. Abbassiamo il rapporto studente/insegnante. Intrecciamo la “quarta transizione” (PNRR) in atto, ai principi di Don Milani, per fronteggiare l’emergenza educativa che, insieme all’incalzante trasparenza dei riferimenti valoriali, alle veloci innovazioni tecnologiche e al declino ambientale, rischia di travolgere il futuro delle nuove generazioni.
Doranna Montefusco Fuzzi