Brutti sogni
(Arturo Lattuneddu)
Erano appena le quattro di un pomeriggio insolitamente caldo per la stagione e la guerra sembrava lontana. Ancora qualche ritardatario saliva di corsa la scaletta, berciando verso chi rimaneva, mentre si dava un’ultima sistemata alla divisa immacolata col foglio di libera uscita ben stretto in mano. Il trambusto che sempre accompagnava le licenze brevi si era finalmente chetato, eppure c’era dell’altro e iniziavo a sentirlo anch’io. Da sottocoperta immaginavi un temporale, ma non era il rumore tamburellante della pioggia con le gocce che scivolano sui vetri e il brontolio dei tuoni, lontano e attutito, erano scoppi cadenzati, incalzanti e sempre più vicini. Oscillavano le cose e le persone e infine eravamo stati scagliati a terra, in ginocchio e poi ancora a terra. Niente fischi o sibili premonitori, nessuna sirena d’allarme, nemmeno brutti presentimenti, solo boati e schianti metallici con echi vibrati da scatoletta di latta aperta a strappo. Sembrava di essere in mare aperto e non attraccati in banchina con l’acqua che ribolliva e sfrigolava offesa dall’immane calore, dal vuoto e poi subito dal troppo pieno, centripeto e debordante. Avvertivo la nave viva, sbandare e poi tremare febbrile, come governata da onde di tempesta. Poi l’esplosione, vicinissima, un fragore che fa sanguinare le orecchie e insieme un soffio bollente che ti svuota i polmoni e ti strina i capelli. Buio, è saltato tutto. Rimangono solo scariche elettriche e scintille e quell’odore impossibile di carne bruciata. Il prima non esiste più: il cervello si è come svuotato, rattrappito in un angolo della testa e ora arrivano cose alla rinfusa che lo riempiono di nuovo, disordinatamente, quasi dolorosamente. I ricordi non sono pensieri belli, paiono in bianco e nero, tristi e finiti. Chissà perché mio padre quando mi portava allo zoo mi metteva sempre a sedere sul bordo della vasca dei coccodrilli e io avevo paura di cadere e agitavo le braccine e lui era tutto contento perché credeva mi piacesse. “In totale quante zampe hanno 12 coccodrilli se, come ben sapete bambini, i coccodrilli ne hanno 4 ciascuno? Ordinati, niente cancellotti e non state con la testa storta sul quaderno!”. La maestra Torricelli, è sicuramente lei, anche se non ce l’ho tutta, manca il volto, non è ancora arrivato. Zampe, piedi, gambe, cioè tante gambe e tanti corpi se ci sono e questa è matematica applicata. “Quanti sono i dispersi se ne hanno due ciascuno?”. “Non due destre, conta meglio”. “Chi ha una sinistra?”. “Quanto ci mette un trattore a lavorare un campo quadrato di 1000 metri per lato se procede alla velocità di 5 km l’ora? E’ difficile ma non impossibile anche per delle teste di legno come voi!”. E questo è di certo il professor Fattori, alle professionali, vedo come fosse ieri i suoi tic e le sue benedette equivalenze. Quattrocento metri per 1000, ma non riconosco alcun appezzamento di buona terra, nera e grassa, perfetta per il granturco. Ci sono invece il molo Sud del porto e una squadriglia di bombardieri con tante bombe, 100 tonnellate per essere precisi come il problema richiede; hanno arato con scrupolo e rivoltato zolle umane, pezzi di navi e di mare morto. La proiezione continua, senza pause, senza principio né fine, reminiscenze infantili che traducono un inconscio di paure irrisolte e slegate. “Babbo, mi sono messo il cartone dentro i calzoni per non sentire le cinghiate e l’olio da cucina nei capelli per non essere preso; non vi arrabbiate, smetto di correre intorno alla tavola e non lo farò più” mi sento urlare in maniera concitata “Domani andrò a scuola con i calzettoni fino alle ginocchia così copro i lividi”. Attenzione che nella pagella sta scritto: “Per norma dei genitori si avverte che nel giudicare la condotta dell’alunno si tiene conto delle assenze per negligenza, del contegno dentro e fuori della scuola, della diligenza, della nettezza della persona e delle vesti, della conservazione e pulizia del materiale scolastico e d’ogni altro elemento da cui si rilevi la personalità morale dell’alunno”. Ancora fantasie che vengono da un profondo mai esplorato compiutamente, giungendo disarticolate e accavallate.
Di corsa, sempre, mai camminare, regolati dalla tromba e dai suoi maledetti squilli diversi. Non siamo quei coglioni dei fascisti, siamo il Corpo Reale Equipaggi Marittimi, non ci sbracciamo e non rispondiamo presente, ma per nome e cognome, diritti e composti come si deve. Attenti alla stecca, lava i denti, i capelli, i piedi, tutto, che sennò addio alla passeggiata igienica di prammatica. “Se deve succhiarlo, il vostro uccello deve sembrare un sorbetto!” grida il maresciallo Picone. E noi zitti con un sorriso appena accennato. A me piaceva la bolognese, mora, truccata e tettona, ma costava tanto. “Mi fa qualcosa per 20 centesimi?” dicevo speranzoso. “Valà porino, per 20 centesimi fai con l’immaginazione!” rispondeva lei immancabilmente. “Mamma … ho paura, aiutatemi … non voglio morire… mamma”. Odo la voce e la sua totale disperazione, come un singhiozzo di tutta la persona; proviene da uno squarcio di lamiere e paratie contorte di quella che era la sala del gruppo elettrogeno. Sembra portata da sbuffi di fumo acre che escono bassi, striscianti, a lente volute e fanno bruciare gli occhi. Il grido si ripete a intervalli, simile al rosario in una chiesa a maggio, di sera, con i lumini accesi e un vago profumo d’incenso quando i fedeli chiamati alla preghiera si raccolgono nel miracolo mariano. Cara Mamma, Vi scrivo per dirvi che sto bene e mangio abbastanza. Il maresciallo Bufatti mi ha promosso elettricista responsabile della torre 2. Purtroppo il mio amico Giuseppe si è imbarcato con la torpediniera Antares e non lo sento da un po’. Finalmente le riparazioni sono concluse e potremo tornare a navigare entro due settimane, destinazione Genova. Un abbraccio al signor babbo e ditegli che ora uso sempre il dentifricio e lo spazzolino, insieme finalmente. Non temete per me che tutto va bene. L’urlo mi ha svegliato, ma sono sicuro di non avere dormito, neanche un po’, e ciononostante ho la sensazione strana di essermi perso qualcosa, una scheggia di vita, appena qualche fotogramma di una pellicola sconosciuta che mio malgrado sembra essere stata girata per me. L’ho semplicemente sputata fuori, alla stregua di una cosa inutile, superflua. L’idea della privazione mi appare grottesca e intollerabile e, chissà perché, mi viene da piangere. Non è il pensiero della perdita ad angustiarmi, piuttosto il senso di abbandono e d’irreversibilità che ne deriva. Sento tutto questo nell’intimo dei miei pensieri, folli ed estranei, che dolorosamente rimbalzano come ghiaia lanciata nella profondità della mente mentre mi sembra di non avere un corpo. Non ho un contorno, ma sto recuperando una percezione quasi immateriale dell’insieme. Giaccio sulla schiena immerso nell’oscurità più totale e non so di poter articolare di nuovo braccia e gambe, incapace di capire se sono io che mi muovo o se è il vuoto intorno a me che solletica il mio corpo. “Sono io e sono vivo” urlo o credo di farlo. Ne esce solo un gracidare che mi lascia stremato e senza fiato. E’ stato come se qualcuno avesse alzato troppo il volume e un suono lacerante mi fosse esploso in testa, dentro o fuori non lo so. La testa appunto. Sembra spiccata dal corpo, forse di gomma, deformabile e sensibilissima. La tocco, ne seguo il profilo, recupero il naso, la bocca, le orecchie, gli occhi. “Sono intero!” sospiro rassicurato. Finalmente capisco. Un attimo prima, o qualche minuto o qualche ora, ero sottocoperta intento a riordinare l’officina con due commilitoni e si chiacchierava di quanto fosse bella Napoli in questa stagione e di una certa casa dei quartieri spagnoli, molto accogliente, che aveva da poco cambiato la squadra. Nessuno di noi aveva ancora assaggiato, ma eravamo più che pronti a innamorarci di nuovo. Era sempre così: ogni quindici giorni si dimenticava la guerra e si tornava leggeri di spirito e di portafoglio. Poi tutto era stato cancellato, all’inizio da uno sbuffo che ci aveva spostato con una spinta leggera e subito dopo da un’onda d’urto che aveva travolto persone e cose. Diciassette anni e la mano che adesso trema anche a stringere un morsetto. Non ho paura, no davvero, e lo posso provare perché ho solo 17 anni e sono partito volontario, ma non ho mai visto tanti morti e tanti pezzi di morti e poi quello cui sono uscite le budella e l’ho appoggiato, piano, alla paratia, seduto a sostenersi e a dissanguarsi e gli altri, ancora nelle cuccette, silenti, immobili, tutti marroni e uguali a bachi da seta prima della metamorfosi. Sono guardia pari, numero 2610: 2 perché libero nei giorni pari, 6 come reparto elettromeccanico e infine 10 che è il numero della mia cuccetta. Non è giusto, non ci dovevo essere io, ero pronto ad andare e invece sono rimasto consegnato a bordo. Trenta minuti, forse meno, per cambiare in non so chi o che cosa. Un mondo esterno che non esiste più e io che devo recuperare le domande e le risposte, tutte, o almeno quelle che già avevo. Da noi il demonio e la sua sarabanda, in cielo l’azzurro sfrontato di una giornata di sole che va a terminare sfumandosi nei contorni della città che pare non essersi accorta di nulla. Bollettino di guerra del 4 dicembre 1942, XXI anno dell’era fascista. Contegno da tenere durante l’ascolto, secondo il foglio di disposizioni n.5 del P.N.F. del 19 novembre 1940 – XIX: nei pubblici ritrovi, allorché venga trasmesso per radio, i fascisti lo ascoltino in piedi e il pubblico presente non tarderà a uniformarsi a questo esempio di comprensione e di stile. “Napoli, festa di Santa Barbara, bombardieri Liberator americani hanno proditoriamente colpito il porto militare dove era alla fonda la 7a Divisione Navale. Nonostante la strenua difesa contraerea veniva affondato l’incrociatore Muzio Attendolo; gravemente danneggiati gli incrociatori leggeri Montecuccoli ed Eugenio di Savoia. Si registravano 130 morti e 434 dispersi “.