La storia si ripete
La peste al nord Italia nel XVI e XVII secolo
Non son poche le malattie che, nel tempo, hanno avuto gli ‘onori’ dalla letteratura: per citarne solo alcune, ormai destinate all’immortalità, rammentiamo la devastante epidemia di Atene nel 430 a.C, descritta da Tucidide o la peste nera del XIV secolo, narrata dal Boccaccio nel Decameron, quando a Firenze si moriva come mosche, ma pure quella detta ‘di san Carlo’ poiché avvenne sotto l’episcopato del cardinal Carlo Borromeo e colpì il nord Italia, tra il 1576 e il 1577.
In quella terribile epidemia persero la vita così tante persone che meritò persino di essere citata da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi in quanto evento epidemico che precedette quello ancor più deleterio, che colpì Milano e tutta la Lombardia negli anni attorno al 1630 sotto l’episcopato del cugino di Carlo Borromeo, Federico, diventando lo scenario in cui il grande scrittore ambientò il suo intramontabile romanzo storico.
A causa della peste di san Carlo si ammalò anche uno dei maggiori maestri della pittura italiana di quell’epoca, Tiziano Vecellio, il quale morì, insieme a suo figlio Orazio, a Venezia, il 27 agosto 1576 nella loro casa in contrada ai Birri; si racconta che il suo corpo fosse stato gettato in una fossa comune dai monatti ( che avevano il compito ingrato di raccogliere i cadaveri contaminati) e la sua casa fosse divenuta oggetto di sciacallaggio ma che, in seguito, la Signoria del governo avesse cercato di riparare al ‘sacrilegio’. Infatti la salma venne rintracciata e traslata con i dovuti onori ai Frari dove fu doverosamente inumata.
Alla sofferta opera, Coronazione di spine, oggi conservata alla pinacoteca di Monaco, l’artista affidò l’ultima sua linfa di vita. Aveva infatti implorato di <<….sostentar come conviene questo nome di cavaliere tanto onorato.>>
Sia l’epidemia del 1576/’77(con diciassettemila appestati) sia quella ben più devastante, del 1630 (dagli ottantamila ai centosettantamila) quando in Lombardia e a Milano, si scatenarono i primi focolai, ebbero come protagonisti due personaggi storici poco noti ai nostri giorni ma che operarono attivamente nelle sorti di tali eventi: Ludovico Settala e Alessandro Tadino.
Manzoni ne I promessi sposi, al capitolo XXVIII, nomina Settala e Tadino riguardo la vicenda di Renzo e Lucia ma pure al capitolo XXXI cita Settala come scopritore della “strana malattia” estesasi come focolaio nei dintorni di Lecco.
Ludovico Settala nel 1573, a soli ventun anni, fu membro del Collegio dei medici e presto fu cattedratico di grande valore a Pavia; agli esordi della peste di san Carlo, già dai primi sintomi che si verificavano tra le persone, si rese subito conto di cosa si trattasse ma trovò immediate difficoltà e testardi detrattori a Venezia, dove vari medici dissentivano dalla sua tesi.
La Signoria allora, fece intervenire due grandi luminari da Padova, Girolamo Mercuriale e Girolamo Capodivacca i quali sentenziarono che non si trattasse affatto di peste ma di un’ influenza che colpiva l’ambito polmonare..
Alessandro Tadino, aveva ventotto anni di meno del celebre medico era stato allievo di Galilei, a Padova ma dal 1627, divenne suo assistente al Tribunale di Sanità e durante la terribile epidemia del 1630 combattè anch’egli con grande vigore, senza risparmiarsi .
La gente riteneva che medici come loro, parlassero di epidemie per creare spavento ed accrescere così i propri profitti,dunque li minacciava e dileggiava.
Quando poi iniziarono a condensarsi le truppe tedesche, al servizio della Spagna, verso i confini del Ducato milanese e dell’Italia medesima, cominciarono ad espandersi casi di peste.
I due medici chiesero subito che si troncassero i rapporti con i luoghi infetti, ad esempio con Lindau, in Baviera, ma i mercanti non vollero saperne e neppure i pubblici ufficiali che tolsero i divieti.
A Lecco non si volle sospendere il mercato. Inoltre lungo la riva sinistra del lago di Como scendevano i lanzichenecchi (soldati mercenari, tedeschi, di fanteria) portando ulteriori contagi dall’esterno, causando violenze, saccheggi e incrementando la vendita alla plebe di tutto ciò che depredavano ai mercanti, con prezzi ‘stracciati’ e spingendola, perciò, a riversarsi in giro contravvenendo così, per necessità o per interesse, alle raccomandazioni di non divulgare il morbo.
Di certo, fu idea del Tadino, approvata da Settala, quella messa in atto dal Tribunale della sanità, di infliggere, nel giorno di Pentecoste agli increduli milanesi, una tremenda prova a cui accenna anche il Manzoni: all’epoca era d’ uso andare alla chiesa di san Gregorio e in quella parte le vie erano piene di gente. Così, in mezzo al popolo, venne fatto passare un carro con all’interno, un’intera famiglia morta di peste; il carro restava parzialmente scoperto lasciando esposti alla vista i cadaveri e i segni del morbo che portavano addosso; finalmente, i passanti credettero ma era già troppo tardi.
Certo a quell’epoca i medici, nondimeno Settala e Tadino, erano infarciti di nozioni pseudo-scientifiche, commiste a credenze di natura superstiziosa ( anche la medicina, per esempio, credeva negli influssi astrali): bisognerà attendere l’Illuminismo per la nascita di una scienza indipendente da altre influenze. Infatti Ludovico Settala, nella seconda stesura di un suo testo giovanile sulla peste, riscritta nel 1627 e dedicata a Federico Borromeo, dopo aver sottolineato che tutti i medici milanesi furono eccellenti nel trattare l’epidemia del 1576, dopo aver annotato che soltanto uno o due di essi fuggirono, sentenzia comunque che il morbo è mandato direttamente da Dio ma spiega che i primi sintomi sono lievi e dunque la gravità del malanno non si manifesta nell’immediatezza: quindi l’impressione che ne risulta è quella di un’aggressione fulminea.
Alessandro Tadino, dal canto suo, era convinto che la peste venisse acuita dagli untori che si credeva spargessero in giro degli unguenti infetti per diffondere il morbo. Purtroppo tale convincimento era così comune che provocò una miriade di processi, condanne, esecuzioni di pene capitali e crudeli torture ai malcapitati che cadevano nella rete del sospetto.
La peste manzoniana perdurò dal 1629 fino al 1633, con un altissimo numero di contagi, attorno al 1630, provocando circa un milione di morti in giro per l’Italia del nord, giungendo fino alla Toscana ma allargandosi anche fino alla odierna Svizzera.
A Milano presso il Lazzaretto, nel mese di febbraio qualcuno pensò che fosse buona idea- poiché ivi si era destinati a morire comunque- quella di festeggiare con canti e balli il carnevale, non rispettando così, le raccomandazioni dei medici Settala e Tadino che avevano, altresì, proposto alle autorità di sopprimere i tre giorni addizionali del ‘carnevalone’ milanese. Dai piani alti governativi non si vollero infrangere le tradizioni dei festeggiamenti ludici tanto cari alla città. L’epidemia dilagò sempre di più.
Persino due comete si resero manifeste di presagio: la prima, nel 1628, all’inizio della diffusione del morbo, la seconda nel 1630 ma il destino continuò la sua corsa verso una tragica fine.
Al termine dell’ epidemia il bilancio riguardo ai due previdenti ed intuitivi medici, risultò il seguente: Ludovico Settala, ormai ottantaduenne, morì nel 1633, sofferente di sopravvenuta demenza senile; tre anni prima, però, era riuscito a guarire dalla peste che lo aveva aggredito, pur perdendo un figlio e la propria moglie.
Alessandro Tadino sopravvisse e continuò la sua attività. Morì molti anni dopo, nel 1661.
L’osservare quanto gli eventi del passato, seppure molto lontano, si ripetano ciclicamente nel corso della storia, spinge l’essere umano a meditare su quali insegnamenti si possano trarre dagli accadimenti: non occorre che cambino le abitudini, che si modifichino le idee o evolvano le tecnologie per scongiurarne la resilienza se non si tiene in conto la storia, perché la storia ha insegnato, insegna e sempre insegnerà.
Anna Rita Delucca